I chiarimenti della Corte di Cassazione sul riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro: ordinanza n. 129557/2023

di Donatella Saccia

La Corte di Cassazione Civile (Sez. Lav), con l’ordinanza n. 21955 depositata il 21 luglio 2023, si è soffermata sul tema del riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro e sui meccanismi presuntivi della colpa, fornendo importanti chiarimenti.

Con la menzionata ordinanza, il Supremo Collegio ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Messina con la quale (in riforma della sentenza di primo grado) era stata respinta la domanda dagli eredi di un lavoratore volta ad ottenere il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa di tubista carpentiere dal 28 gennaio 1963 al 2006, alle dipendenze di diverse società appaltatrici. Precisamente, la Corte territoriale, riportate le considerazioni dei consulenti medico legali sulla patologia che ha causato il decesso del lavoratore e sui relativi fattori di rischio, ha ritenuto che i dati raccolti non dimostrassero l’esposizione del lavoratore a specifici agenti chimici, il tempo e le modalità di tale esposizione e che, pertanto, non potesse individuarsi un rapporto di causalità tra l’attività lavorativa svolta dal predetto e la patologia che ne aveva causato il decesso.

La questione sottoposta allo scrutinio del giudice di legittimità è stata dunque la negazione,  nell’impugnata sentenza della Corte di Appello, dell’esistenza di un nesso causale tra l’attività prestata dal lavoratore deceduto e la patologia contratta, senza osservare il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità, e sebbene tale nesso di causalità fosse stato riconosciuto dal Tribunale sulla scorta di prove decisive e delle risultanze della c.t.u. medico-legale.

Nell’unico motivo del ricorso è stato sostenuto che “deve essere riconosciuto il nesso causale in presenza di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie in assenza di concause addebitabili all’infortunato e nella conclamata e non contestata assenza di avvedutezza comportamentale di parte datoriale”. È stata dunque contestata la decisione impugnata per non avere valutato il dato, oggettivo e non contestato, dell’esposizione del lavoratore, per circa un ventennio, ad amianto, alle ammine agli IPA presenti in Raffineria, nonché la sussistenza di altri fattori idonei a favorire l’azione dannosa di tali sostanze nocive o di aggravarne gli effetti. L’impugnata sentenza è stata criticata, inoltre, per non avere tenuto conto degli studi ambientali sulla popolazione di Milazzo, che hanno evidenziato una maggiore evidenza statistica del tumore alla vescica rispetto ad altre aree territoriali e l’assenza nel caso in esame di altri fattori di rischio o concause del tumore alla vescica come il fumo di sigaretta, l’abuso di alcolici o di analgesici, l’esposizione a veleni.

L’approdo ermeneutico a cui giunge la Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, parte dalla differenza tra misure c.d. nominate, cioè le misure di sicurezza espressamente previste dalle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, e misure c.d. innominate ricavate dall’art. 2087 c.c. (recante il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile). Quest’ultima previsione, per la sua stessa natura di norma di chiusura del sistema prevenzionistico, obbliga infatti il datore di lavoro non solo al rispetto delle particolari misure imposte da leggi e regolamenti in materia antinfortunistica, ma anche all’adozione di tutte le altre misure che risultino, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratore, salvo il caso di comprovati comportamenti o atti abnormi ed imprevedibili del lavoratore medesimo.

Gli Ermellini, nell’ordinanza in commento, ricollegano due diversi effetti della presunzione legale di colpa alle misure di sicurezza c.d. nominate e innominate e, conseguentemente, una diversa ripartizione degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro.

In particolare, secondo il Supremo Collegio, nel caso di omissione di misure di sicurezza c.d. nominate (espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante), il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione legale di colpevolezza prevista dall’art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore). Pertanto la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore.

Viceversa, nel caso di non adozione delle misure c.d. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione. E più specificamente la Corte evidenzia che al lavoratore – che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute – incombe l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra. I Supremi Giudici, nel motivare l’ordinanza di rigetto del ricorso, hanno osservato che, nel caso di specie, la Corte d’Appello ha esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia e il criterio causale proprio del giudizio civile, ispirato alla regola di preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, in base al quale (e in esito della valutazione delle risultanze istruttorie) essa ha escluso l’esistenza di alcun nesso tra il fattore lavorativo e la malattia contratta.